Improvvisamente l'estate scorsa - Teatro Alessandrino - 15 gennaio - recensione


Il dramma celato nell’inconscio e lo scavo psicologico nei ricordi solo apparentemente rimossi sono il tema ricorrente di Tennessee Williams che ne rende le opere sempre attuali come i turbamenti senza tempo dell’animo. Ne “Improvvisamente l’estate scorsa” l’aspetto psicanalitico risalta in particolar modo, insieme alla grettezza e al perbenismo borghese volti a tacciare di pazzia ogni rivelazione di una realtà scomoda.
Il confronto tra una presunta nipote folle, rea solo di aver scoperto una verità socialmente inaccettabile, e una zia resa cieca dall’amore totalizzante per il figlio morto in circostanze dubbie, diventa una lotta esistenziale in un contesto primitivo e selvaggio. L’azione è ambientata dal regista in un giardino-giungla. La bellissima scenografia è formata da piante rampicanti che scendono a cascata e danno l’impressione di una forza indomabile, animata da urla di predatori che accompagnano sinistramente tutti i dialoghi e atterriscono per la violenza suggerita. I protagonisti mancano di ogni senso di pietà, al moralismo borghese e al denaro è possibile sacrificare una mente destinata, per nascondere un segreto, alla lobotomia, famigerata pratica all’epoca considerata all’avanguardia. I due personaggi femminili su cui ruota la pièce sono Violet, madre sopravvissuta al figlio troppo possessivamente e avidamente amato, e Catherine, la nipote tacciata di pazzia e internata in un manicomio per aver scoperto una tendenza omosessuale del defunto e aver assistito alla sua truculenta morte. Straordinariamente brave entrambe le attrici nel sostenere ruoli difficili e dalle mille sfumature. Violet è folle e non appare tale che in particolari e nel finale, Catherine non lo è, ma è  indotta a sembrarlo per costrizione nella casa di cura e per disperazione a causa del trauma subito. L’intensità dell’interpretazione è persino dolorosa, tanta è la verità che ne sortisce e la crudezza che va a colpire lo spettatore. La madre e il fratello di Catherine sono figure meschine, ottimamente interpretate con volti di pietra e dialoghi improntati solo all’avidità e al tentativo di compiacimento nei confronti della ricca zia. Il solo personaggio dotato di umanità e di reale interessamento nei confronti della presunta pazza, è il medico esperto in lobotomia, che, in cambio di un congruo finanziamento al suo ospedale, viene convocato per tacitare per sempre la ragazza. In lui è posta l’unica speranza di comprensione in un mondo le cui leggi sono più crudeli che quelle della sopravvivenza dei predatori.  La lettura, durante la prima parte dello spettacolo, che Violet fa al medico, delle Encantadas di Melville, dove si narra di una natura selvaggia e spaventosa, si riflette in ciò che si vede sin dal primo momento sulla scena. E’ questa la vita rappresentata, la stessa della carneficina alle Galapagos da parte degli uccelli predatori sulle testuggini neonate che devono raggiungere il mare, la stessa laddove “il principale suono di vita è un sibilo”.  Sibili agghiaccianti dietro piante intricate e tenebrose non sono altro che il riflettersi di istinti malamente celati da apparenze civili.  Tutto lo spettacolo suscita un’attrazione ipnotica sullo spettatore, l’effetto è totalizzante come l’attenzione che si viene a creare grazie alla splendida interpretazione e alla regia di Elio De Capitani che enfatizza l’inquietudine del testo. L’opera di Tennessee Williams non potrebbe essere rappresentata meglio.    

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