Il rumore,
le parole e i lazzi altrui contro la voce del cuore e il sentimento che abita
la parte più vera dell’uomo. Questo il messaggio apparentemente lieto che
sortisce da una commedia archetipica per ingegno costruttivo e per vivacità di
ritmo. Accanto alle due storie d’amore parallele di Claudio ed Ero e di
Benedetto e Beatrice, vivono e prosperano inganni, che mutano amore in odio e
viceversa, burle, convenzioni e dicerie che trasformano calunnie in verità che
rovinano. La commedia segue il suo corso
ilare, ma trasuda momenti di tragicità repentini e catastrofici, dovuti al
vivere sociale e alla dimenticanza di ciò che si intuisce per vero in favore di
ciò che altri suggeriscono con il ragionamento.
Proprio
questo aspetto ambivalente dei rapporti sociali viene messo in evidenza dalla
regia di Alberto Giusti che enfatizza la dicotomia tra amicizia baldanzosa e
goliardica e tragicità assoluta con risvolti misogini e reazioni furiose a
false rivelazioni. Claudio, l’innamorato puro e sentimentale di Ero, diventa gretto
e violento a fronte della falsa notizia del tradimento dell’amata e non esita a
vendicarsi coprendola di infamia con una violenza verbale e fisica inaudita. In
un contesto, per scelta registica, non caratterizzato e suggerito solo da un’impalcatura
in legno che simula un portico su un immaginario giardino, la nuda parola risulta
più potente che mai e origina fatti e comportamenti inediti in personaggi che
cambiano personalità in un baleno, quasi i loro animi si impregnassero delle
futilità che attraversano l’udito. Gli inganni vengono svelati, i cattivi sono
tali integralmente e il bene trionfa, ma, nel ritmo vivace del susseguirsi dei
fatti, serpeggia un’inquietudine che il buon finale non sopisce. “L’uomo è
volubile, si lascia intimorire dalle beffe”, recita sul finire Benedetto, unico
personaggio che, da beffardo e insensibile, si mostra disposto a non condannare
e a credere alla buona fede suggeritagli dall’amore che prova per Beatrice.
Uno
spettacolo di circa due ore che procede incalzante, diverte, stupisce per
l’utilizzo originale di una scenografia schematica e versatile, offre registri
diversi di comicità e di tragicità. Molto bravi questi attori della Compagnia
Gank, in particolare spiccano le parti sagaci di Giovanni Franzoni e Mariella
Speranza, Benedetto e Beatrice. Nelle loro schermaglie amorose rivelano una
notevole abilità interpretativa nel
rendere freschi e pungenti motti di spirito in un testo shakespeariano, laddove
verrebbe invece più naturale allo
spettatore sentire una verità immutabile nelle parti tragiche e liriche
piuttosto che in quelle satiriche. Molto efficaci anche i personaggi dei due
popolani addetti alla guardia del principe proprietario della tenuta. Il loro
linguaggio è raffazzonato e privo di eleganza ma rivelatore al fine di ricomporre
l’armonia. Dunque tanta raffinatezza dialettica nulla può contro la verità, sia
pur grettamente espressa. I due guardiani sono grotteschi, uno dei due spinge l’altro
in un carrello da supermercato cinto da catene che simula un carretto, sono
vestiti con cappellacci e il loro muoversi è scandito dal ritornello “manà manà”,
uno slogan beffardo e privo di senso. Eppure sono una chiave di ignara saggezza
che rompe un incantesimo malvagio e riporta i nostri personaggi alla loro
personalità originaria.
“Siate felici, siate spavalde” è il canto
della gioia e della saggezza del vero sentimento che si oppone al canto funebre
per la falsa morte di Ero: la felicità irragionevole ad oltranza contro la
funesta ragione dominata dalla logica della parola ingannatrice. Solo così i
gemiti e i pianti si possono mutare in musica, solo rimanendo fedeli a noi
stessi e alle pulsioni dei nostri animi possiamo non cadere in vani e
ingannevoli raziocini.
Da non
perdere.