Molto rumore per nulla - 5 aprile - Teatro Alessandrino - recensione


Il rumore, le parole e i lazzi altrui contro la voce del cuore e il sentimento che abita la parte più vera dell’uomo. Questo il messaggio apparentemente lieto che sortisce da una commedia archetipica per ingegno costruttivo e per vivacità di ritmo. Accanto alle due storie d’amore parallele di Claudio ed Ero e di Benedetto e Beatrice, vivono e prosperano inganni, che mutano amore in odio e viceversa, burle, convenzioni e dicerie che trasformano calunnie in verità che rovinano.  La commedia segue il suo corso ilare, ma trasuda momenti di tragicità repentini e catastrofici, dovuti al vivere sociale e alla dimenticanza di ciò che si intuisce per vero in favore di ciò che altri suggeriscono con il ragionamento.
Proprio questo aspetto ambivalente dei rapporti sociali viene messo in evidenza dalla regia di Alberto Giusti che enfatizza la dicotomia tra amicizia baldanzosa e goliardica e tragicità assoluta con risvolti misogini e reazioni furiose a false rivelazioni. Claudio, l’innamorato puro e sentimentale di Ero, diventa gretto e violento a fronte della falsa notizia del tradimento dell’amata e non esita a vendicarsi coprendola di infamia con una violenza verbale e fisica inaudita. In un contesto, per scelta registica, non caratterizzato e suggerito solo da un’impalcatura in legno che simula un portico su un immaginario giardino, la nuda parola risulta più potente che mai e origina fatti e comportamenti inediti in personaggi che cambiano personalità in un baleno, quasi i loro animi si impregnassero delle futilità che attraversano l’udito. Gli inganni vengono svelati, i cattivi sono tali integralmente e il bene trionfa, ma, nel ritmo vivace del susseguirsi dei fatti, serpeggia un’inquietudine che il buon finale non sopisce. “L’uomo è volubile, si lascia intimorire dalle beffe”, recita sul finire Benedetto, unico personaggio che, da beffardo e insensibile, si mostra disposto a non condannare e a credere alla buona fede suggeritagli dall’amore che prova per Beatrice.
Uno spettacolo di circa due ore che procede incalzante, diverte, stupisce per l’utilizzo originale di una scenografia schematica e versatile, offre registri diversi di comicità e di tragicità. Molto bravi questi attori della Compagnia Gank, in particolare spiccano le parti sagaci di Giovanni Franzoni e Mariella Speranza, Benedetto e Beatrice. Nelle loro schermaglie amorose rivelano una notevole abilità interpretativa  nel rendere freschi e pungenti motti di spirito in un testo shakespeariano, laddove verrebbe  invece più naturale allo spettatore sentire una verità immutabile nelle parti tragiche e liriche piuttosto che in quelle satiriche. Molto efficaci anche i personaggi dei due popolani addetti alla guardia del principe proprietario della tenuta. Il loro linguaggio è raffazzonato e privo di eleganza ma rivelatore al fine di ricomporre l’armonia. Dunque tanta raffinatezza dialettica nulla può contro la verità, sia pur grettamente espressa. I due guardiani sono grotteschi, uno dei due spinge l’altro in un carrello da supermercato cinto da catene che simula un carretto, sono vestiti con cappellacci e il loro muoversi è scandito dal ritornello “manà manà”, uno slogan beffardo e privo di senso. Eppure sono una chiave di ignara saggezza che rompe un incantesimo malvagio e riporta i nostri personaggi alla loro personalità originaria.
 “Siate felici, siate spavalde” è il canto della gioia e della saggezza del vero sentimento che si oppone al canto funebre per la falsa morte di Ero: la felicità irragionevole ad oltranza contro la funesta ragione dominata dalla logica della parola ingannatrice. Solo così i gemiti e i pianti si possono mutare in musica, solo rimanendo fedeli a noi stessi e alle pulsioni dei nostri animi possiamo non cadere in vani e ingannevoli raziocini.
Da non perdere.

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