Bottecchia '23 - 30 aprile - Alessandria Teatro Ambra - recensione


Le parole raccontano e illustrano, talvolta suggestionano. Se proferite con fascino e scioltezza, evocano mondi che prendono forma nelle menti e si mostrano vividi attraversando le barriere del tempo. Massimo Poggio, Gualtiero Burzi e Matteo Marsan, in “Bottecchia ‘23”,  raccontano di un tempo che ci appare lontanissimo, dove il mito dello sport si accomunava alla miseria più cruda e dove lo spirito agonistico era una necessità di sopravvivenza, prima che amore per una disciplina o desiderio di vittoria. Ottavio Bottecchia conosce una povertà che sa di fame, combatte nella prima guerra mondiale nei bersaglieri ciclisti e vi sopravvive portandone i segni sul corpo provato dalla denutrizione. Il ciclismo per lui è un lavoro per garantire la sopravvivenza alla sua famiglia, nulla conta il successo e il sacrificio è da sempre l’aspetto prevalente della sua vita. In una lotta dettata dalla disperazione, con il corpo contorto sulla bicicletta, che appare una “macchina commovente”, e un viso quasi deforme che tanto viene commentato dai giornalisti, compie l’impresa insperata di affermarsi nel tour de France del ’23, diventando, pur brutto e goffo,  un eroe e un simbolo.
Il racconto a tre voci passa attraverso le fasi del suo arruolamento nella squadra dell’Automoto, della poca credibilità che gli viene attribuita a causa della sua rozzezza , dell’ostilità da parte dei colleghi francesi e del ritorno in Italia in pieno periodo fascista, momento in cui un eroe nazionale deve aderire obbligatoriamente al regime. Tanti i tranelli e pericolosi i giochi di ruolo e di potere che ruotano intorno ad una manifestazione così importante, ma Bottecchia non viene scalfito da alcuna mira personale, la povertà da cui proviene sostiene in lui il solo obiettivo di guadagnare e, quindi, di fare ciò che gli è imposto: il gregario che non vince , ma fa vincere il campione francese. I tre protagonisti ricreano i rumori della gara, le cronache dei giornalisti (con il sottofondo del ticchettio della macchina da scrivere), le convocazioni del nostro ciclista presso i vertici dirigenziali della squadra e presso il cosiddetto “maresciallo” Boger, sprezzante verso di lui a causa del suo aspetto sgradevole e impacciato. Passano da una parlata veneta ad una milanese, bolognese e francese con una facilità che appare naturale e del tutto priva di sforzo.  Creano ora momenti di riflessione ora atmosfere di confusione affollata.
Un turbinio di pensieri, che girano confusamente, si affolla nella mente di  Bottecchia. Le voci sovrapposte e corali, nella loro interdipendenza, dei tre lettori iniziano e terminano la serata proponendoci il vortice di ricordi del protagonista con il ritmo delle preoccupazioni e degli affanni che impediscono la chiarezza espositiva e la risoluzione degli stessi.
Splendida la lettura di Massimo Poggio, Gualtiero Burzi e Matteo Marsan (quest’ultimo dotato di un timbro profondo che sottolinea in modo particolare aspetti drammatici), sempre convincente e affascinante nel portarci in luoghi e tempi lontani e nel ricreare realtà che balzano improvvisamente davanti agli occhi. Alle loro spalle la bella e semplice scenografia, formata da sagome che rappresentano la tour Eiffel, i Pirenei e un treno ( “in Francia si va per fame”, il viaggio per necessità), si anima e ci trasporta attraverso le tappe di una competizione sportiva che si identifica con la vita stessa.
Teatro colmo e visibile e meritato apprezzamento del pubblico. 
Nicoletta Cavanna

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